SoundTrack: Piccola Stella Senza Cielo
Di nuovo sul treno,
stesso luogo, stessa routine. Ricominciamo. Prendo posto nella poltroncina
vicino al finestrino, almeno posso guardare il panorama mentre la musica
rimbomba nelle mie orecchie. Sono rientrata dalle vacanze, se così si possono
definire, già da tre settimane, ma il mare mi sembra un ricordo lontano.
Appoggio la testa allo schienale e chiudo gli occhi. Se non porta ritardo, tra
un’ora dovrei giungere a destinazione. Il treno non è ancora pieno, ma tra poco
lo sarà. La scuola è cominciata, quindi il cinquanta percento dei passeggeri
sono studenti rumorosi, motivo per cui non abbandono mai il mio ipod. Il
restante cinquanta invece, sono uomini e donne che come me, vanno a lavorare.
Non che li abbia mai guardati con attenzione,
di solito, infatti, entro, mi fiondo nel primo posto libero e mi perdo
tra i miei pensieri ascoltando la musica. Quando riapro gli occhi vedo che
accanto a me si è seduta una signora, l’ho già vista altre volte, ma non le ho
mai parlato. Ogni tanto mi sorride a mò di saluto. Ha dei bellissimi occhi
nocciola ma il suo viso è stanco, pieno di rughe sotto gli occhi e anche le
mani sono vissute e trasandate, ma sorride sempre, con una gentilezza innata.
Di fronte a me invece c’è uno studente, seduto in maniera scomposta, noncurante
di nessuno, capelli rigorosamente laccati che non si muoverebbero nemmeno sotto
le raffiche del maestrale, orecchino al naso e aria strafottente. Alzo il
sopracciglio non appena lui mi fa l’occhiolino e richiudo gli occhi per evitare
di rispondergli male. Sono inquieta oggi, ancora assonnata e con una voglia di
vivere pari a zero. Le giornate si susseguono, senza nulla di nuovo e io ho
bisogno di novità, di altri spunti, di nuovi input. Mi estraneo un’altra volta, mentre Ligabue canta
Piccola stella senza cielo. Credo di
essermi assopita, guardo l’orologio, manca ancora mezz’ora. La signora dagli
occhi nocciola è sempre accanto a me,
penso che dorma. Lo studente invece ha il telefonino in mano e fa quello che
ormai fa il resto della popolazione “what’s
appa”. Ho anche io what’s app ma non lo uso mai, l’entusiasmo iniziale è
scemato nel tempo, anche perché per usarlo devi avere dei contatti e che
contatti ho io? Nessuno, a parte qualche ex compagna di scuola trasferitasi
chissà dove per realizzare uno dei tanti sogni. Sì, i sogni, quelli che sono
nel cassetto e che rimangono chiusi lì per una vita. Anche io ho un sogno ma ho
deciso di sotterrarlo, altro che cassettiera. Il mio non è in un bel settimino
antico, no, è sotto terra, seppellito tra le cose che non accadranno mai. Ci ho
rinunciato ancor prima di sognarlo, ma d’altronde come fai a sperare se sai già
che non c’è speranza? Scuoto la testa leggermente come a voler cacciare via
quel pensiero ed è lì che mi accorgo di lui.
Chi è?
È la prima volta che lo vedo, non mi pare di averlo mai
notato. È seduto accanto allo studente bullo e sembra che stia
guardando me.
O no?
Non è facile capirlo
visto che ha gli occhiali da sole. E per di più sta piovendo.
A che gli servono gli occhiali?
Arriccio il naso mentre
mi rendo conto che ultimamente tutto mi infastidisce.
Sarà apatia?
Mi volto verso il
finestrino e guardo fuori, ma nulla cattura il mio interesse se non l’immagine
riflessa di lui. Sì lui. La prima domanda che mi frulla per la testa è: “Di che colore ha gli occhi?” E più me
lo chiedo, più la mia curiosità aumenta. Ho quasi voglia di alzarmi e
togliergli gli occhiali. Sono esterrefatta, questo strano entusiasmo di sapere
mi lascia basita. Non è da me. Occhiate sommarie, sguardi spenti, nient’altro.
Eppure quel ragazzo mi incuriosisce, ma non è voglia di conoscerlo, no, è
voglia di immaginare chi è, cosa fa, come si chiama e di che colore ha gli
occhi. Oh gli occhi, potrei morire di curiosità se non scopro di che colore
sono.
«Che tempo di merda»
esclama il bullo strafottente che prova ad attaccar bottone.
«Sì» mi limito a dire. «Non c’è il
sole» aggiungo.
Hai
capito? Non c’è il sole. Togliti gli occhiali!
Mi rivolgo mentalmente al tizio sconosciuto
che non si muove di un millimetro. Comincio a pensare che sia un mimo o un
artista di strada, di quelli che non so come, riescono a stare immobili come
statue. Tra un’occhiata furtiva e un’altra, mi accorgo che ha i capelli neri e
un lieve accenno di barba. Troppo poco per capire chi è. Fingo noncuranza e
richiudo gli occhi. Vediamo se riesco a immaginarlo. Disegno mentalmente la sua
immagine, ma è sfocata, ho pochi dettagli. Mi sforzo. Ha gli occhi neri, sì,
neri. Ho deciso, anche se la mia teoria non mi convince. Tossicchio e sbircio
di nuovo, mi servono altri particolari. È alto, parecchio direi, la poltroncina
sembra piuttosto piccola per lui, ha delle belle mani, una bella bocca ma è
antipatico, sì, mi sembra troppo sicuro di sé. Postura decisa, mascella
contratta… Tipico uomo Denim: quello che non deve chiedere mai.
Puff.
Sbuffo difronte a cotanta sicurezza e
sorrido sotto i baffi immaginando le sue pseudo certezze sgretolarsi come un
castello di sabbia colpito da un’onda.
«Siamo arrivati con due minuti di
anticipo» ci comunica la signora dagli occhi buoni e dal dolce sorriso, guardando
l’orologio che ha al polso.
Miracolo!
Lo studente si alza per primo, seguito
dalla signora. Lo sconosciuto dagli occhiali da sole resta seduto e io pure. Il
treno si è quasi svuotato ma lui non accenna ad alzarsi. Mi alzo, si alza anche
lui. Rimane fermo, sto per superarlo ma lui si mette davanti, dandomi le spalle
e tagliandomi la strada.
Quanto
sei arrogante!
La supposizione sulla sua probabile
antipatia diviene una fulminante certezza. Antipatico!
Antipatico! Antipatico!
Menomale che non può sentirmi. Cammino
dietro di lui che si muove a passo di lumaca. Se continua così arriverò in
ritardo al lavoro. Il suo telefono inizia a squillare. Si ferma.
No!
«Mi scusi» dico in tono palesemente
scocciato.
Lui si sposta, non ha ancora risposto alla
chiamata. Mi guarda o almeno penso che lo stia facendo. Io gli lancio
un’occhiataccia di quelle che non ti lasciano scampo.
Non
rispondi? Dai rispondi, così sento la tua voce.
Prego mentalmente, ma niente, non
risponde. Non solo non conosco il colore dei suoi occhi, ma nemmeno il timbro
della sua voce. In realtà non conosco nulla e quel pensiero mi angoscia.
Perché?
Gli lancio un ultimo sguardo e mi
dileguo tra la folla che assedia la stazione.
Lo
rivedrò?
…to be continued
Filely/DamonEd© 2014
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